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Siria: un patrimonio millenario vittima di guerra Tra i danni causati da bombardamenti e attacchi, ma anche da furti e scavi clandestini, figurano anche le distruzioni che hanno colpito i siti o i monumenti più importanti nel paese. Nel caos generale le comunità locali tentano di difendere il loro passato, ma anche il loro avvenire economico con il turismo Dieci millenni di storia, antica, cristiana, musulmana, memoria dell'umanità, si sbriciolano ogni giorno sotto le bombe, i furti, gli scavi clandestini, i traffici d'opere d'arte. Quello siriano è un patrimonio unico al mondo (10.000 siti ed opere censiti, 8 siti UNESCO di cui 5 colpiti) eroso quotidianamente nell'oblio generale. Paolo Matthiae, l'archeologo che scoprì la città di Ebla e le migliaia di tavolette cuneiformi, ha lanciato da Roma una campagna internazionale con Francesco Rutelli per tentare di salvarlo: "Si tratta di un patrimonio davvero universale. Nella Siria sono nati i primi villaggi agricoli sulle rive dell'Eufrate, 10.000 anni prima di Cristo. E' lì che l'umanità ha sperimentato i primi modelli di città lontano dalle valli fluviali, intorno al terzo millennio, lì che si è inventato il primo alfabeto, verso il 1300 a. C., in cui ogni segno corrisponde a un suono, e che rivoluzionò la scrittura. Provincia importante per Roma, tanto che Apollodoro di Damasco costruisce il Foro di traiano. Terra del primo Cristianesimo nascente, erede di Bisanzio, sede del califfato degli Ommayadi, la Siria è rimasta per secoli un ponte tra l'Oriente musulmano e l'Occidente cristiano sotto il segno della tolleranza. Ed era uno dei paesi più aperti per gli archeologi: c'erano 70 missioni estere, senza distinzioni politiche. Ci fu anche una missione di ricercatori americani, ebrei, che fu accolta senza problemi". Quali sono i danni più ingenti? "Le distruzioni che hanno colpito i monumenti più importanti, simbolici: il minareto della moschea degli Ommayadi e la città medievale di Aleppo, il Krak dei Cavalieri del XII sec. vicino a Homs, i danni ai mosaici della grande moschea degli Ommayadi a Damasco, a Maaloula, il villaggio cristiano dove si parla ancora l'aramaico, la lingua di Cristo, danni di cui si sa e si parla. Ma ci sono anche devastazioni che si vedono meno, ma sono altrettanto gravi: la moltiplicazione esponenziale degli scavi clandestini, basti citare Apamea, bucherellata all'infinito, la grande città antica di Mari, il sito di Dura Europos. E poi i furti, soprattutto nei musei regionali, a volte opera di bande armate. I traffici clandestini prosperano. C'è un rischio più grave: che gli scavi clandestini, finora generalmente operati a livello individuale, prendano una dimensione industriale, con l'utilizzo di mezzi meccanici pesanti che distruggono tutto, come in Iraq e in Afghanistan. Dal maggio scorso, l'UNESCO ha allertato i paesi confinanti: si è potuto bloccare alla frontiera libanese un carico d'antichità. Ma si sa quanto le frontiere siano lunghe, desertiche e porose". Cosa si può fare concretamente? La campagna lanciata da Francesco Rutelli prevede iniziative di sostegno alla sorveglianza dei siti e dei musei, con guardiani permanenti pagati. Alcuni siti sono abbandonati, i locali di missioni saccheggiati con perdita di documentazione. Ad Ebla ci sono stati alcuni scavi clandestini sporadici, ma sono stati bloccati subito dalla reazione degli abitanti. Ed è, questo, un punto importante: nel caos generale, le popolazioni locali tentano di assicurare un minimo di autodifesa: hanno capito che si tratta di difendere il loro passato, la loro identità, ma anche il loro avvenire economico con il turismo. Bisogna organizzare fin d'adesso una collaborazione internazionale, penso soprattutto ai paesi europei, per prepararsi a coordinare gli interventi di restauro e ripristino appena la situazione politica lo permetterà. Può sembrare non attuale, ma bisogna preparare già da adesso la rinascita del patrimonio siriano". Come si muovono le Autorità siriane? "La Direzione Generale delle Antichità e Monumenti ha lanciato appelli a tutte le parti: non utilizzare i siti storici per usi militari, per evitare che siano bombardati. Cerca inoltre di mantenere contatti con i suoi funzionari anche nelle zone occupate dai ribelli. Pare che nella regione di Raqqa un mosaico antico sia stato fatto saltare in aria. Finora le distruzioni erano la conseguenza della guerra, mentre ora rischiano di diventare un obiettivo da parte di gruppi religiosi intolleranti, a volte stranieri, come fu il caso dei Buddha di Bamiyan in Afghanistan". di Viviane Dutaut-Ceccarelli, da OASIS novembre 2013 Quella mia telefonata con il Papa Sabato 28 settembre la vita mi ha riservato una sorpresa che mai avrei potuto immaginare. Verso le sette di sera ricevo una telefonata con il numero schermato, rispondo con curiosità e dall’altro capo una voce ormai familiare si è dichiarata: “Sono Papa Francesco. Ho ricevuto il libro, la sua lettera e volevo ringraziarla”. Stupore e gioia hanno accompagnato una chiacchierata con una persona che sentivo amica, nelle corde di una terra piemontese che si unisce, nell’affetto e nella stima verso l’umanità di Terra Madre, quella rete di contadini, pescatori, nomadi e artigiani del cibo che ogni due anni si riunisce in Torino. Infatti, il 7 settembre, giorno della mobilitazione pacifica per la pace, avendo aderito al digiuno, ho pensato di inviare a Papa Francesco il libro Terra Madre con i volti dei delegati, un mio articolo sull’emigrazione piemontese apparso su Repubblica nei giorni della visita papale a Lampedusa e una mia lettera di presentazione. Tutto ciò è stato motivo della nostra telefonata. Nelle parole del Papa il ricordo nitido della storia “piccola” della sua famiglia: “I miei si stabilirono a Torino dall’astigiano, aprendo un piccolo caffè in una casa d’angolo con via Garibaldi”; poi la migrazione verso la terra d’Argentina: “Mio papà doveva imbarcarsi sul Mafalda, poi per disguidi dovette posticipare la partenza di un anno”. È un segno del destino? La motonave Principessa Mafalda diretta Buenos Aires affondò il 25 ottobre 1927 al largo della costa brasiliana e centinaia di migranti morirono tra le onde del mare. Parlando poi del mondo contadino, Francesco ha voluto sottolineare come le buone pratiche delle comunità rurali siano preziose per il destino della terra. Proprio su questo tema il papa ha avuto parole forti: “Il lavoro di queste persone è straordinario”, “accumulare denaro non deve essere il fine principale”, “mia nonna mi diceva che quando si muore il sudario non ha tasche per mettere i soldi”. In questi anni ho sentito molti parlare del lavoro dei piccoli contadini come pratica virtuosa ma irrilevante per l’economia; per contro, molte personalità del mondo hanno espresso solidarietà e comprensione per il mondo degli umili e per il loro ruolo nel difendere i beni comuni del pianeta. La convinta vicinanza a queste ultime tesi della più alta autorità religiosa del cattolicesimo è straordinaria. Il mio amico Ermanno Olmi mi ha detto che “la primavera è arrivata”. Edgar Morin sostiene che “tutto deve ricominciare e tutto è già ricominciato”. Nella mia lettera ho aperto il mio cuore a quest’uomo nel raccontare la mia infanzia e adolescenza nella fede cristiana insegnatami da una nonna che ho molto amato. Praticava la fede cattolica e, al contempo, condivideva lo spirito libertario e socialista del suo uomo. Superò con dignità i tempi della condanna papale verso i comunisti, rimanendo fedele a Gesù e a suo marito da tempo scomparso. Dai tempi della mia giovinezza ho maturato e mantengo uno spirito agnostico, ma l’assenza di religiosità non mi ha impedito in questi anni di condividere esperienze e civili battaglie con donne e uomini di fede. Non ho le capacità o le conoscenze per aprire un dialogo profondo e colto sui temi della fede, ma avverto che, se l’umanità vuole uscire dal deserto di idee che la circonda, persone che sanno dialogare come Papa Francesco sono preziose e io sento il bisogno di testimoniarlo. Anche lo strumento che usa, il telefono, senza alcuna mediazione, è segno di un modo schietto e diretto, dove gli interlocutori sono i più vari, come varie sono le motivazioni e gli argomenti; si ha l’impressione di parlare con un amico. È così si chiude la nostra conversazione telefonica, con l’augurio di buona salute e un abbraccio reciproco: un mondo dove si può fraternamente abbracciare un Papa è davvero un mondo bello. di Carlo Petrini - fondatore di Slow Food settembre 2013 Donne riscatto dell'Africa Dopo la laurea in Italia Asha sceglie di tornare a Mogadiscio a rischio della vita per guidare un ospedale che contrasta pericolose pratiche tribali. “Io, contro i fondamentalisti per la salute delle bambine” I suoi angeli custodi ormai sono i militari dell’Unione Africana. Nel suo Paese, la Somalia dilaniata dalle guerre tra clan, non muove un passo senza scorta. Perché la dottoressa Asha Omar Ahmed dà fastidio a molti, per il suo impegno tenace contro le mutilazioni genitali femminili e la salute delle madri, in un paese in cui il 98% delle bambine è sottoposto a questa pratica dolorosa, mortificante e fonte di grandi rischi per la salute materno-infantile. Nel luglio di quest’anno la dottoressa è stata insignita a Roma del premio internazionale Colombe d’oro per la pace. La sua storia comincia 25 anni fa a Mogadiscio, dove conclude il primo anno di medicina all’Università Nazionale Somala, convenzionata con la Sapienza di Roma. È il 1992 e scoppia la guerra civile. Asha fugge in Italia: dalla Farnesina ottiene una borsa, dall’università il riconoscimento degli esami. Asha si laurea, si specializza in ginecologia. Dopo uno stage a Londra e un dottorato di ricerca in Africa orientale – in cui studia i danni sulle donne incinte che assumono khat – torna a Mogadiscio: “Il Paese è da ricostruire da zero”. Oggi è direttrice dell’ospedale “Giacomo De Martino” di Mogadiscio, ristrutturato nel 2010 dalla cooperazione italiana. Ma le campagne contro l’infibulazione e i corsi per ostetriche non piacciono né ai fondamentalisti né ai falsi medici che lucrano su queste pratiche. È nel 2006 che raccoglie il testimone da suor Leonella Sgorbati. La religiosa italiana, che con tre consorelle gestisce l’ospedale “Sos Villaggi dei bambini”, viene assassinata da fanatici. “L’avevo conosciuta quattro mesi prima – racconta Asha – e ne ho preso il posto per concludere il suo corso per infermieri. Non ho mai pensato di abbandonare la Somalia, anche se avrei potuto lavorare a Roma o Londra”. Già a Roma all’Umberto I collabora con la chirurgia ricostruttiva per le infibulazioni di tante immigrate, etiopi, eritree e sudanesi. “Poi la ricerca sul campo mi ha dato le dimensioni della sofferenza e del bisogno che c’è nel mio paese”. L’infibulazione provoca moltissime complicanze. Perfino fistole, che mettono in comunicazione la vagina con la vescica o il retto, con perdite continue. A Mogadiscio, 2 milioni di abitanti, sono rimasti attivi solo quattro ospedali: “Grazie all’Italia abbiamo riaperto uno dei 27 padiglioni del De Martino”. Abbandonato durante la guerra, è stato occupato dagli sfollati. Che sia una donna a dirigerlo, e con una missione ben chiara, è inconcepibile per molti. “Io sono musulmana praticante – dice Asha – ma sfido a trovare nel Corano una sola riga che giustifichi le mutilazioni. La religione non c’entra, è una pratica antichissima diffusa dalla Somalia al mali, chiamata anche infibulazione faraonica. Ma in Egitto è vietata da un secolo. Da noi le cose soprattutto in città migliorano, ora stiamo istruendo le ostetriche tradizionali delle aree rurali. Ho scritto un manuale pratico in lingua somala; diamo kit per eseguire parti igienici. E lo sponsor del corso, la compagnia telefonica nazionale, paga 10 dollari alle ostetriche che portano i casi difficili all’ospedale: prima non lo facevano per non perdere il compenso”. Asha si definisce “una donna fortunata: ho potuto studiare e ne sono grata all’Italia. Non sono femminista, ma è vero che chi istruisce una donna, istruisce una società”. di Luca Liverani – giornalista di Avvenire luglio 2013: Se l’architetto diventa democratico Il paesaggio, e non il potente di turno, oggi diventa il riferimento per chi progetta e costruisce. Lo spiegano gli esperti, partendo dalla consapevolezza che il luogo, lo spazio, il paesaggio producono effetti sulle persone e che luogo, spazio e paesaggio sono modificati dall’azione delle persone. A Siena dal 28 luglio al 4 agosto. La distanza tra natura e cultura, su cui si sono arrovellati pensatori per secoli, si sta dissolvendo; e il paesaggio demarca tale passaggio. “Se il discorso scientifico nella storia prende le mosse tra l’altro dalla distinzione tracciata da Cartesio tra mente e corpo, tra res cogitans e res extensa, oggi si preferisce prestare attenzione, più che alla differenza, alla relazione che vi intercorre. Il concetto di paesaggio diviene il modello di riferimento”: lo spiega Franco Farinelli, illustre geografo, uno dei docenti che interverranno alla Summer School in Architettura Sostenibile che si apre all’Università degli studi di Siena il 28 luglio. Si fonda su una nuova consapevolezza, “riassunta – continua Farinelli – nelle parole del geografo anarchico Élisée Reclus “L’umanità non è altro che la Terra che prende consapevolezza di sé”. Così oggi le distinzioni tra spazio e territorio, tra soggetto e oggetto, tra essere umano e ambiente, non reggono più. C’è la coscienza della assoluta interrelazione…”. Tale nuova coscienza è un frutto di quel che è chiamato “globalizzazione”. “Un fenomeno non riducibile, come erroneamente pensano alcuni, alla velocità di flusso: riguarda invece la connessione globale tra le persone. E ha una precisa data di nascita: il 1969, quando prende forma la “rete”. Né è semplicemente riassumibile alle visioni olistiche della New Age: riflette invece un pensiero più profondo e radicato nella cultura occidentale. Mi vengono in mente le mappae mundi medievali che giganteggiavano in molte chiese: in esse l’immagine della Terra e quella di Cristo si sovrapponevano e l’ambizione era di rappresentare la totalità dell’umanità, esistita, esistente e futura. La modernità ha cancellato questa fusione e dato luogo alle distinzioni…” Questo porta anche alla frammentazione, osservazione rivolta all’architettura contemporanea da tanta parte della critica: “La postmodernità terrorizza l’esclusione dell’edificio nella città e questo si traduce nell’eccesso dell’archistar che mira a realizzare monumenti a se stanti, staccati dall’insieme della città, di cui si è perso da tempo il senso. Non a caso nessuno dei teorici contemporanei dell’urbanistica parla mai del De Civitate Dei di Agostino, dove pure si trovano concetti di straordinario interesse, a partire dall’idea dell’insieme di “pietre viventi”. E non a caso proprio quest’idea consentirebbe di superare l’artificiosa distanza tra soggetto e oggetto”. Le visioni urbanistiche guardano all’architettura come qualcosa di morto: vuoto, come nell’immagine rinascimentale della “città ideale”. “Come Palmanova: città totalmente progettata, sulla carta bellissima, in realtà deludente. O come nella definizione di città data da Diderot nell’Encyclopédie: muri, edifici, oggetti; non persone. Oggi tutto questo si sta superando…”. E anche in campo architettonico si va facendo strada l’idea di democrazia, che sinora le è stata totalmente aliena, poiché l’architetto è tradizionalmente servitore del “principe”, ovvero del potente di turno. “Le persone vivono in luoghi fisici, ne hanno bisogno e li sentono propri – sostiene l’antropologo Franco la Cecla – per questo alcuni spazi pubblici sono diventati il simbolo dei moti che stanno causando cambiamenti epocali: al Cairo piazza Tahrir, centro della protesta anti Mubarak ieri e anti Morsi oggi; a Istanbul piazza Taksim dove persone di provenienza assai diversa - dalla sinistra europeista ai fedeli della religione sufi – si uniscono per opporsi alla politica di Erdogan, che tra l’altro ha incaricato l’archistar Zaha Hadid di ridisegnare il centro storico della città, stravolgendolo; a Barcellona, piazza Catalunya dove si raccolgono gli “indignados”. Sono tutti ambienti privi di qualità architettonica e di bellezza: incroci, slarghi anonimi, non-luoghi. Ma diventano luoghi, e di alto valore simbolico, perché scelti dall’impegno collettivo che a gran voce richiede, appunto, democrazia”. Quindi gli architetti di per sé non hanno possibilità di contribuire… “Forse molti giovani architetti sognano di diventare archistar. Ma oggi c’è anche chi si impegna a dare un contributo: penso a Architecture for Humanity, gruppo internazionale sorto per aiutare in caso di emergenze come gli tsunami. Ora raccoglie 18 mila progettisti da 44 Paesi che si occupano di tutto: scuole, case popolari, spazi pubblici. Lavorano per le comunità. E sono loro a trovare i clienti per cui lavorare, occupandosi anche di reperire i finanziamenti, per esempio, allo scopo di migliorare la qualità di vita nelle bidonville”. Reperiscono anche finanziatori che agiscono per motivi morali, e non di interesse? “Il business oggi sta nelle città. Riqualificandole si generano profitti, molti se ne sono accorti. Non a caso in India la ricca "Bollywood” sta investendo negli slum di Delhi…”. Anche in Italia c’è chi si muove in questa direzione; Edoardio Milesi per esempio si è impegnato per la realizzazione della scuola tecnica dei Padri Monfortani ad Haiti. “Mira a essere molto più di una scuola. Il popolo di Haiti ha bisogno di andare oltre la sopravvivenza dei sussidi e giungere a farsi carico del proprio destino, usando tecnologie adeguate. Col terremoto molti edifici mal strutturati in cemento – peraltro materiale estraneo alla tradizione architettonica dell’isola - sono crollati: stiamo costruendo col legno rinforzato da giunti metallici, una tecnica praticata in Europa, sicura in eventi sismici. L’edificazione è usata come occasione di apprendimento e di partecipazione comunitaria. È architettura sostenibile: la via del futuro”. di Leonardo Servadio – giornalista di Avvenire maggio 2013: La biblioteca a tre ruote Da dieci anni anni un maestro in pensione gira tra i Comuni della Basilicata portando nelle piazze con il suo Bibliomotocarro la lettura alla portata dei bambini Altro che tablet e smartphone; altro che superconnessioni e fibra ottica. Per il maestro Antonio La Cava, di Ferrandina in provincia di Matera, il piacere della lettura non può essere affidato alla tecnologia, bensì alla riscoperta del buon vecchio libro. Magari da sfogliare nella piazza del proprio paese, e meglio se in compagnia. Così questo ingegnoso insegnante lucano, in pensione da qualche anno, ha pensato di attrezzare un“Bibliomotocarro”: il maestro La Cava ha trasformato un tre ruote Ape in una vera e propria libreria; l’ha colorato di azzurro, ha allestito un tettuccio in tegole con tanto di comignolo fumante collegato al tubo di scappamento e ha poi inserito delle portiere vetrate. Ma non è finita: sull’Ape ci sono seggioline e tavolini a misura di bambino e –ovviamente – libri. Tanti libri: ben 1.200! Quando il Bibliomotocarro arriva nella piazza di un paese, viene circondato dall’entusiasmo di bambini e ragazzi. E pian piano la curiosità lascia il posto alla voglia di accomodarsi sulle graziose seggioline, ricevere un buon libro, immergersi nella lettura e provare la magia del Bibliomotocarro, in barba a quanti pensano che, con il libro digitale, nell’immediato futuro non ci sarà più spazio per i libri di carta. Antonio La Cava è convinto del contrario: ai bambini non andrebbe mai negata l’emozione di toccare le pagine, di scorrerle e sentire l’odore della carta stampata. Detto, fatto. La Cava si definisce un “maestro di strada” ed è piuttosto critico con certi colleghi delle scuole primarie che, pur insegnando a leggere, non sarebbero in grado di offrire ai bambini ciò che è ancora più importante: “la voglia di farlo”. Proprio con questo obbiettivo, da dieci anni questo maestro di strada si inerpica con il suo tre ruote per le stradine spesso disagevoli della Basilicata, raggiungendo paesini bellissimi, ma talvolta isolati delle provincie di Potenza e Matera. E non si ferma qui. Antonio La Cava già in mente altri due brillanti progetti: procurarsi volumi per far leggere bambini di altre nazionalità e portare i libri ai minori finiti in carcere. Con il suo solito, ma vincente, biglietto da visita: un buon libro fatto di vere pagine, che odorano di carta e stampa. Pur essendo una piccola regione, la Basilicata conta ben 131 Comuni. Ma, a parte i più grandi, sono pochi i paesi che hanno una biblioteca comunale. Dunque il maestro La Cava, con le sue scorribande a bordo del Bibliomotocarro, va a coprire un vuoto. Qualche volta raggiunge i centri montuosi inseriti nel Parco Nazionale del Pollino, o nella val d’Agri, dove si estrae il petrolio. Oppure, ancora, le località balneari della costa ionica. Altre volte, però, il “maestro di strada” sconfina pure nelle regioni vicine. Non senza conseguenze come quella volta fino a Taranto: “tra andata e ritorno, ho fuso il motore…!” da Popotus, giornale di attualità per bambini marzo 2013: Touraine: la finanza può travolgere l'Europa Il decano dei sociologi europei spiega la sua ricetta per uscire dalla crisi: "Ridiamo il primo posto ai cittadini, contro il diktat del capitalismo globale" Poiché “l’individuo non si misura in dollari, bisogna mettere fine al dominio dell’economia sulla società. La crisi è il risultato della rottura, imposta da chi gestisce la finanza mondiale, fra i loro interessi e quelli dei cittadini". Alain Tourraine, parigino di 88 anni, è uno dei più grandi sociologi viventi, oltreché una celebrità accademica. Arriva a Roma per la presentazione del suo ultimo libro: Dopo la crisi. Una nuova società possibile (Armando ed.), che non è solo un’analisi sociologica, quasi antropologica, della crisi economica, ma è anche il tentativo di proporre soluzioni che svincolino definitivamente la società e la politica dal diktat dell’economia. Nel suo libro traccia il profilo di un’Europa che rischia di essere travolta dalla crisi economica. Per lui il problema non è tanto economico, ma sociale. La sua ricetta è la costruzione di una società nuova, emancipata da questo rincorrersi malato di dati economico-finanziari e centrata su “un nuovo umanesimo, che pone al centro l’individuo con i suoi diritti, le sue aggregazioni, rispettose le une delle altre, trattato dall’universo economico come una risorsa, non più come una merce o una macchina”. E aggiunge: “Restando così le cose la catastrofe è l’evento più probabile. Perché attualmente la società e la politica non sono in grado di produrre attori capaci di gestire il cambiamento. E quando parlo di attori mi riferisco a organizzazioni sociali, partiti politici, l’insieme degli intellettuali. E il caso italiano è emblematico di questa situazione, col suo debito pubblico, con la sua forte accentuazione dei problemi legati allo spread”. E finora sono state adottate le cure sbagliate. “Da quando in Europa si è affacciato il liberismo, le crisi si sono succedute le une alle altre e nei fatti gli unici interventi messi in campo sono stati finanziari, con rinnovate distribuzioni di soldi alle banche. Allo stesso modo la crisi attuale non è gestita dalla politica, ma dalla Banca Centrale Europea che si muove con le stesse logiche. Questo è un paradosso, oltre che la conferma dell’incoscienza della politica, sia in ambiente conservatore che in quello socialdemocratico, con la sinistra completamente spiazzata dagli eventi attuali, in particolare dal processo di destrutturazione della società industriale. Le nostre istituzioni non hanno la capacità di affrontare e risolvere né i problemi economici, né le urgenze dell’ecologia. Nei fatti gli essenziali legami fra la politica, l’economia e la società sono stati spezzati dalla globalizzazione della finanza, sulla quale nessuno riesce più a esercitare il controllo. Il rischio certo è nel riproporsi di derive autoritarie”, come quelle generate dalla crisi economica e sociale che ha sconvolto l’Occidente dopo la prima guerra mondiale. E quando parla di destrutturazione della società industriale, Touraine si riferisce all’incapacità del capitalismo industriale di far fronte, oggi come allora, agli imperativi della crisi, anche a causa del progressivo disimpegno del settore pubblico dall’industria. Attenzione, però, spiega il sociologo, “non si può pensare di fare un salto indietro nel tempo e di risolvere il problema riproponendo ricette economiche antiche, perché la conseguenza sarebbe il ripetersi di nuove crisi sempre più gravi. L’unica soluzione possibile nasce dalla contrapposizione del tema morale al tema economico”. In sostanza bisogna ricostruire una società “in cui i padroni dell’economia siano obbligati dallo Stato a tener conto degli interessi degli individui, che vogliono essere rispettati, non continuare a subire e essere umiliati”. Intanto, per evitare il rischio immediato di catastrofe, con derive autoritarie e violente, “bisogna rilanciare il capitalismo industriale, seppure in termini nuovi, per ridare vitalità alle realtà sociali esistenti. Contemporaneamente bisogna porre le basi d una società nuova, fondata sui principi etici universali che sono contenuti nella Carta dei Diritti dell’Uomo. La lotta per l’affermazione sociale di questi diritti deve fronteggiare il predominio del capitale finanziario , che è fondato su logiche speculative contrarie a ogni diritto, ribadendo che è la democrazia, che trasforma gli individui in cittadini responsabili, la condizione prima del rilancio economico e sociale”. di Roberto I. Zanini - giornalisa di Avvenire gennaio 2013: Crosta d’asfalto La cementificazione selvaggia aggredisce il nostro paesaggio: in 15anni ci siamo mangiati la superficie di Lazio e Abruzzo. Ma forse il vento sta cambiando, grazie anche ad alcuni sindaci intraprendenti. Non c’era bisogno di Celentano per sapere che là dove c’era l’erba oggi c’è una città. Bastava guardare fuori dalla finestra. O leggere le statistiche. Secondo l’ISTAT dal 1990 al 2005 in Italia si sono consumati 3milioni 663mila ettari di superficie agricola: è come se ci fossimo mangiati una serie di campi grandi quanto Lazio e Abruzzo. Nella sola Liguria i terreni agricoli sono diminuiti del 45,4% in quindici anni. Secondo il dossier L’anno del cemento realizzato nel 2009 dal WWF, dal 1956 a oggi nel nostro Paese la superficie urbanizzata sarebbe aumentata del 500%. Con un consumo quotidiano di suolo che oscilla tra i 75 e i 140 ettari al giorno. Nella sola Lombardia, capofila di tutte le classifiche grigie, ogni giorno viene ricoperta di cemento una superficie pari a sette volte piazza Duomo: 117 mila metri quadrati. Non certo una novità. Già nel 1957 Italo Calvino pubblicava sulla rivista Botteghe Oscure “La speculazione edilizia”: un racconto che ha come protagonista Quinto, intellettuale che diventa un’affarista del mattone in Riviera. “La speculazione di Calvino era in parte diversa da quella di oggi” spiega Paolo Pileri, docente del Politecnico di Milano e membro del Centro studi sui consumi di suolo. “In quegli anni c’era davvero bisogno di dare una casa agli italiani. Erano gli anni della grande migrazione interna: si costruiva tanto e senza legge”. Anni di abusivismi selvaggi sanati, a partire dal 1984, con tre condoni edilizi in trent’anni. “Oggi invece il suolo è diventato un mezzo finanziario: costruisco perché voglio capitalizzare e mi serve una rendita, anche solo presunta, per chiedere altri soldi alle banche per costruire ulteriori cubature che garantiranno i mutui contratti per costruire” prosegue Pileri. Un circolo vizioso, una spirale senza fine. “Se prima la rendita immobiliare, commisurata a fabbisogni reali, veniva contrastata anche dall’agire pubblico, oggi è diventata il motore stesso dello sviluppo, così si finisce per costruire indipendentemente dall’utilità” aggiunge Edoardo Salsano, architetto e anima del sito www.eddyburg.it. Ma nel corso di questi decenni è cambiato anche il modo di costruire. “Assistiamo ad un fenomeno di suburbanizzazione, la città è diventata diffusa: sono nati quartieri a bassa intensità abitativa che saturano ogni spazio libero. Siamo all’apoteosi di quella che Cederna chiamava la crosta di cemento e asfalto” racconta Salsano. Capannoni, svincoli, villette con giardino che grattano all’agricoltura e alla natura i residui terreni liberi. “È la nuova desolante forma del paesaggio italiano” scrive Salvatore Settis in Paesaggio, costruzione, cemento. “Stiamo tradendo il nostro modello urbanistico storico” rincara Salsano. Compromettendo un paesaggio identitario, ma anche una risorsa ambientale. E i rischi non sono solo paesaggistici. “Il suolo è una risorsa multifunzionale” spiega Paolo Pileri. “Produce cibo, trattiene anidride carbonica, regola la temperatura ed è fonte di biodiversità. Servizi ecologici non monetizzabili ma fondamentali per il futuro”. Non solo. “Continuare a impermeabilizzarlo con colate di cemento e asfalto ha come conseguenza diretta le alluvioni e le frane di questi anni. Un costo di oltre tre miliardi l’anno”. E allora, tutto è perduto? Non ancora. “Anche se bisogna tener conto che i consumi di suolo sono irreversibili e il territorio non è infinito” sottolinea Pileri. Una speranza arriva da Cassinetta di Lugagnano, Comune di 1.800 abitanti in provincia di Milano all’interno del parco del Ticino. Nel 2007 il sindaco Domenico Finiguerra, primo in Italia, ha adottato un piano regolatore a crescita zero. “Si tratta di un PGT che non contiene previsioni di crescita dell'insediamento, ma traccia una linea rossa intorno all’abitato. Un piano che non invade le aree destinate all’agricoltura, ma riqualifica le zone industriali e gli ingombri esistenti” spiega Finiguerra. “Niente di rivoluzionario” continua. “In Germania è una prassi normale. Fin dal 1998 la legge Merkel definisce obiettivi imperativi di riduzione del consumo di suolo”. L’autoimposto diktat tedesco è passare da 130 a 30 ettari al giorno entro il 2020, fino ad arrivare alla crescita zero entro il 2050. “E invece in Italia ci fanno passare per estremisti. Ma noi siamo ambientalisti radicali: noi il cemento lo usiamo, non vogliamo tornare all’epoca della candela. Però vogliamo un’edilizia diversa, che non consumi suolo”. L’intrepida Cassinetta ha fatto scuola: l’esempio è stato seguito da altri piccoli Comuni lombardi (Solza, Pregnana Milanese, Ozzero e Ronco Brianzolo) e i principi ispiratori sono stati fatti propri anche dalla Provincia di Torino. Per farlo gli amministratori rinunciano ai cospicui introiti di urbanizzazione. Dal 2001 infatti una legge del governo Amato autorizza i Comuni a utilizzare il 50% dei soldi che i costruttori versano per contribuire alle spese di urbanizzazione delle nuove case per coprire le spese correnti, ovvero servizi ai cittadini, stipendi e bollette. “E con il decreto Milleproroghe del 2009 la quota è salita fino al 75%. Siamo nella sciagurata situazione per cui i Comuni per far cassa e star dentro i limiti del Patto di stabilità svendono il proprio territorio”, aggiunge Pileri. “Anche per noi gli oneri sarebbero fondamentali per pareggiare il bilancio. Però ci siamo organizzati tagliando il superfluo, usando la fantasia e ispirandoci alle buone pratiche di altri Comuni” incalza Finiguerra. La situazione è paradossale: i Comuni virtuosi attenti a difendere il futuro del proprio territorio sono a corto di fondi; quelli che lo devastano ricevono denari pubblici per contribuire alla devastazione. Occorre invertire la logica e in questo senso le proposte sono diverse. “Il primo passo è abolire la legge sciagurata che permette ai Comuni di finanziare le spese con gli oneri di urbanizzazione, altrimenti il circolo vizioso non si interromperà” tuona Pileri. “Poi dovremmo concentrarci sul riuso – sostiene Salsano -. Iniziamo a censire l’esistente, dalle aree dismesse agli immobili sfitti, poi elaboriamo un piano di riutilizzazione per dare una casa a tutti senza sottrarre altra terra al ciclo della natura”. Per farlo occorre avviare una rivoluzione culturale nella concezione del suolo. “Per questo abbiamo fondato il Forum dei Movimenti per la Terra e il Paesaggio (www.salviamoilpaesaggio.it)” racconta Finiguerra. “Primo obiettivo: la raccolta di firme per promuovere una legge di iniziativa popolare che definisca il suolo un bene pubblico”. Calvino descriveva gli anni della speculazione edilizia “un’epoca di bassa marea morale”: che l’acqua stia cominciando a risalire? di Tino Mantarro - giornalista di Touring Approfondimenti: Coste italiane: la carica dei cento porti “Che cento fiori fioriscano, che cento scuole gareggino” diceva il presidente Mao. “Che cento porti turistici nascano” sosteneva in anni più recenti l’ex ministro Altero Matteoli come racconta Luca Martinelli ne Le conseguenze del cemento. “Tra il 2008 e il 2009 in Italia sono stati inaugurati 30 nuovi porti turistici, aumentando di 17mila unità i posti barca, arrivati a 147mila sparsi lungo 7.435 chilometri di costa” scrive Martinelli. E altre migliaia sono in costruzione. Assomarinas – l’associazione dei porti turistici – nel 2010 lamentava: “Con 25mila posti barca in costruzione in molte Regioni italiane difficilmente si costruiranno imprese portuali turistiche capaci di sostenersi economicamente”. Ma il punto è proprio questo: chi costruisce nuovi porti turistici si interessa delle barche fino a un certo punto. Quel che conta è poter edificare tutto intorno: appartamenti, negozi, servizi per la nautica, centri benessere sono i risultati accessori per una manciata di posti barca. Posti che rischiano di rimanere vuoti. “Dei 534 porti circa 240 sono sotto utilizzati” è la stima dell’Unione Italiana Cantieri e Industrie Nautiche. E con la nuova tassa di soggiorno sulle imbarcazioni le stime di utilizzo dei porti italiani sono in picchiata. C’è davvero bisogno di tutti questi porti? In Italia il paesaggio è un optional discussione con Luca Martinelli – giornalista di Altreconomia Quali sono le conseguenze della cementificazione? Sono ambientali, perché si sottrae suolo libero, verde e terreni all’agricoltura. Sono sociali, perché l’ambiente è sempre più degradato. Sono economiche, perché si creano dinamiche che non rispondono alle leggi del mercato. C’era reale necessità di queste cubature? In realtà si è costruito per costruire. Chi sono i responsabili? Registi di quest’operazione sono gli istituti di credito coinvolti nei grandi progetti infrastrutturale ed edilizi, ma anche gli enti locali che utilizzano il territorio come se fosse un bancomat per finanziare la spesa corrente. Poi i cavatori, le aziende che producono cemento e coloro che sviluppano i progetti: impresari, architetti, non solo i vecchi palazzinari. Sviluppo turistico e cementificazione vanno a braccetto. Perché? Si è consolidata una prassi per cui si creano strutture turistiche, soprattutto porti e campi da golf, con l’obiettivo di edificare tutt’intorno. Per funzionare hanno bisogno infrastrutture secondarie: resort, abitazioni, centri congressi, spazi commerciali. Il turismo è la scusa. C’è necessità di queste strutture? Come si può invertire la rotta? Si deve censire il patrimonio - anche ambientale - e bisogna spingere le Regioni ad approvare e far rispettare i piani cave. Poi vanno rivisti i modelli di progettazione e finanziamento nella realizzazione di infrastrutture. E per l’edilizia residenziale 6 milioni di immobili vuoti parlano da soli. È arrivata la stagione dell’ “ecogolf” ? Il dubbio è che uno sport considerato verde come il golf non sia poi tanto ecologico. Con circa 100mila praticanti e quasi 400 impianti, in Italia abbiamo un campo ogni 250 golfisti: in Europa la media è uno ogni mille. E invece qui da noi si parla di costruirne ancora con la scusa di incentivare il turismo golfistico e promuovere il territorio. Ma il sospetto è che spesso i campi (che hanno costi ambientali dovuti all’uso di pesticidi, per mantenere verde il green 365 giorni l’anno, con l'impoverimento delle falde acquifere per avere prati all’inglese anche in piena macchia mediterranea) finiscano per essere solo il primo passo per costruire club house, ville e altre strutture complementari, magari da edificare in deroga all’interno di zone tutelate. Un problema reale, tant’è che lo scorso febbraio è stato firmato un accordo tra Associazioni Ambientaliste, Federparchi e la Federazione Italiana Golf, in cui quest’ultima si impegna a creare nuovi impianti in base a criteri di ecosostenibilità che salvaguardino le aree naturalistiche e a riqualificare gli esistenti in senso ecologico. Ce la faranno? novembre 2012: Dal 1500, spunti per un'apologia di uno sviluppo etico ed ecosostenibile breve stralcio dalle memorie del viaggio in Brasile compiuto dal francese Jean de Léry tra il 1556 e il 1558 "Dove i Topinamba si meravigliano molto al vedere della gente che attraversa il mare per cercar del legno I nostri Topinamba [indigeni del Brasile n.d.r.] si meravigliano molto al veder li Francesi et altri abitanti di paesi lontani darsi tanta pena per andare a cercare il loro Arabotan (cioè il loro legno del Brasile o verzino). Un loro vecchio mi rivolse questa domanda a tal proposito: «Com’è che voialtri Mairs e Peros (Francesi e Portoghesi) venite da tanto lontano a cercar legna per scaldarvi? Non ne avete nel vostro paese?» Al che gli risposi: «Sì, e in gran quantità. Ma non della stessa qualità della vostra e neppure abbiamo il legno del Brasile, che non bruciamo come pensi, ma che portiamo via per farne della tintura, come fate anche voi per colorar di rosso i vostri cordoni di cotone, i vostri piumaggi e altre cose». Al che, replicò immediatamente: «E sia. Ma ve ne occorre una così grande quantità? – Sì, gli dissi, perché vi è un commerciante nel nostro paese che possiede più cotonine e panni rossi, coltelli, forbici, specchi et altre merci di quante ne abbiate mai visti quaggiù! (mi sforzavo di parlargli sempre di cose che conosceva). Un tale, da solo, comprerà tutto il legno del Brasile e molte sue navi se ne torneranno cariche dal tuo paese. –Ah, ah!, sbottò il mio Selvaggio, mi racconti cose sorprendenti!» Poi, avendo considerato per bene ciò che gli avevo detto, mi interrogò ancora, dicendo: «Ma quest’uomo così ricco di cui mi parli, non morirà? – Certo, certo, gli dissi, esattamente come gli altri…». Al che, siccome sono dei grandi conversatori e molto volentieri vogliono concludere un discorso, mi chiese di nuovo: «E una volta morto, a chi andranno tutti i beni che avrà lasciato? – Ai figli, se ne ha; o, in loro assenza, ai fratelli, alle sorelle o ai parenti più stretti. – Davvero!, disse allora il mio vecchio, che, come potete giudicare, non era per nulla sciocco, - Davvero! Ora mi rendo conto che voialtri Mairs siete dei gran matti. Perché avete bisogno di lavorare tanto attraversando il mare, su cui subite tanti disagi – come ci avete detto al vostro arrivo nel nostro paese – per ammassare ricchezze per i vostri figli o per chi vi sopravvive? La terra che vi ha nutriti, non basta a nutrire anche loro? Noi pure – soggiunse – abbiamo genitori e figli che amiamo e rispettiamo, come puoi constatare. Ci assicuriamo solo che, dopo la nostra morte, la terra, che ci ha nutrito, possa nutrirli. E senza darci altro pensiero, non ci preoccupiamo oltre di ciò!». Ecco, in breve, il discorso veritiero che ho udito fare a un povero Selvaggio brasiliano. Dal che si vede che questa nazione, da noi giudicata tanto barbara, si burla con finezza di chi, rischiando la vita, attraversa il mare per andare a cercare del legno del Brasile con lo scopo di arricchirsi. C’è da aggiungere altresì che questa nazione, per cieca che essa sia, in quanto confida più nella natura di quanto noi confidiamo nella potenza e nella Provvidenza Divine, si solleverà per emettere un giudizio contro i rapinatori che si fregiano del titolo di Cristiani e la cui terra, per quel che concerne gli abitanti, è tanto piena quanto il Brasile è vuoto. Per cui, come ebbi a dire in altra occasione – che cioè i Selvaggi odiano a morte gli spilorci – piacesse a Dio che servissero già fin d’ora da demoni e da furie per tormentare i nostri ingordi insaziabili, che non hanno mai abbastanza e non cessano mai di succhiare il sangue e il midollo degli altri. Piacesse a Dio che i nostri arraffatutto fossero confinati tutti in mezzo a loro!" [i Topinamba sono cannibali... n.d.r.] da le "Histoire d’un voyage fait en la terre du Brésil, autrement dite Amerique" di Jean de Léry (1534-1613) settembre 2012: E' il momento di un'economia umana dall'intervista con il pensatore francese Edgar Morin, autore di un manifesto per l'equità sociale, il rischio ambientale, la deriva delle ideologie. A 91 anni non si stanca di chiedere misericordia per il pianeta: "la Terra sta morendo" dice senza l'enfasi teatrale del protagonista di una catastrofe galattica di celluloide. "La corsa verso l'abisso si è accelerata" considera sollevando le braccia verso il soffitto della sua casa. "Ma mi sembra di gridare ne deserto" si rammarica, con un sorriso inaspettato. Ma Edgar Morin è ancora un inguaribile ottimista: "C'è una via per uscirne, ma non passa per il rigore, né per la crescita. Perlomeno non la crescita che vogliono i nostri governi. E' la via del cambiamento, della trasformazione. Probabilità di farcela? Poche. Ma anche l'improbabile è possibile". Ad aprile ha pubblicato in Italia La Via. Per l'avvenire dell'umanità (Ed. Raffaello Cortina) . Tre mesi dopo ha sintetizzato le sue proposte in un "manifesto" di appena 57 pagine (Ed. Chiarelettere), firmato con l'ideologo degli "indignati", Stéphan Hessel, sotto un titolo quasi apostolico: Il cammino della speranza. E' la guida per i giovani indignati smarriti di Madrid? "Non solo quella dei giovani spagnoli, ma anche quella degli americani di Occupy Wall Street, e della gioventù che ha alimentato la primavera araba e le aspirazioni alla libertà e alla dignità. Di tutta la gioventù che aspira a un altro tipo di vita e di società, ad un mondo più giusto, più fraterno, più comunitario. Com'era già accaduto nel maggio del 1968. O prima ancora durante la Resistenza francese. Sono le aspirazioni fondamentali dell'umanità. Che fine hanno fatto? Ancora una volta sono state deluse, ingannate". Inevitabilmente? "Come nel Sessantotto, quando trotskisti e maoisti promettevano di rispondere alle istanze giovanili. Le ultime rivolte hanno un punto in comune: quando la loro giusta collera riesce a rompere il sistema, non ha poi un progetto con cui sostituirlo, una via da proseguire. E così l'evoluzione diventa addiritura regressiva... Non è stata trovata la via per il cambiamento". Che è davvero possibile? "Sì, a patto di non rincorere il rigore e la crescita, intesa come profitto. E' il momento di un'economia sociale e solidale: non mi riferisco solamente alle cooperative, ma anche a imprese che non abbiano il risultato di bilancio come scopo principale. Occorre aiutare il commercio equo, il rapporto diretto tra il produttore e il consumatore: accade già in alcuni mercati, dove i contadini vendono senza intermediari i loro prodotti ai cittadini. Crescita sì, ma di un'economia verde". Non è il tipo di crescita che invocano i governi europei. "Quella crescita ci porta contro un muro. se tutti i cinesi avranno l'auto, il mondo sarà asfissiato. Ma i destini sono in mano ai tecnocrati, che hanno paralizzato il pensiero politico. Deve decrescere l'economia dello spreco e della distruzione, in favore dell'economia bio. Non parlo di pale eoliche. Ma di umanizzare le città, favorire il trasporto pubblico, costruire parcheggi esterni. Quando dico che la Terra sta morendo, non è questione solo di cambio climatico. Il vero problema è l'agricoltura industriale, ormai diffusa coi pesticidi ovunque, soprattutto in Africa e Asia. E' l'allevamento intensivo, che ha già avuto come conseguenza i casi di mucca pazza. La via passa per un ritorno all'agricoltura biologica". Forse non è economica. "Al contrario. Non è meno redditizia dell'agricoltura industriale, che provoca ricadute sulla salute e quindi un incremento delle spese sanitarie". Come mai i politici non ci sentono? "Perchè vivono in un mondo chiuso, avulso dalla realtà comune. Perchè intorno a loro c'è una barriera di specialisti che li consigliano e impediscono loro di vedere i problemi nell'insieme. Ma forse possiamo ancora svegliare la classe politica". Ma i valori da cui dipende la sopravvivenza dell'Unione Europea sembrano essere quelli espressi in punti spread. Crede nell'Europa? "Non molto adesso. E' troppo divisa, incapace di un rinascimento spirituale e morale. Le differenze sono più importanti dei fattori di unione. Manca una politica estera comune... E poi ci sono ancora forze antieuropee molto forti". Ai giovani si chiede di imparare a vivere nell'incertezza e nel precariato: non è un po' ingiusto? "Fa parte della vita. La mia generazione ha vissuto le insicurezze della guerra, la mancanza di garanzie sociali e sanitarie. Forse 20 o 30 anni fa il posto di lavoro era più sicuro. Ma bisogna sapere accettare i rischi, perchè esistono in ogni campo...". Ha scritto che le grandi metamorfosi della storia umana sono state spesso innescate da un messaggio, un'iniziativa percepita come irrilevante dai contemporanei di Sakyamuni o di Gesù Cristo, di Cristoforo Colombo o Galileo e Cartesio. Esiste oggi l'uomo del cambiamento? "Io non vedo nessuno. Né penso di poter essere io, quel profeta". di Elisabetta Rosaspina - giornalista de Il Corriere della Sera luglio 2012: Estate. Il tempo delle vacanze come metafora del viaggio "Voglia di Leggerezza. Voglia di volare, di innalzarci dalla pura materialità, di andare in alto, quasi a dimostrare a noi stessi che è possibile uscire dall'immobilismo che tante volte ci paralizza frenando la nostra voglia di vivere, in pienezza, con gioia, nonostate gli affanni e le corse di ogni giorno. E’ bello, allora, dare a noi stessi questa possibilità di guardare ogni cosa da un altro punto di vista e di innalzarci leggeri, quasi a sfiorare le cose, i problemi, le persone, le tante situazioni che ci è dato di accogliere e vivere ogni giorno. E’ il tocco leggero di una carezza data o solo immaginata, che ci sfiora come la brezza del vento per portarci vicinanza, affetto, interessamento, e ci fa sentire meno soli. E’ passo leggero di chi sa farsi presenza amica e discreta nei momenti più difficili, fianco a fianco, per dirci di non arrenderci. E’ il sorriso leggero di chi si apre alla vita nella gratitudine di un amore ricevuto e dato. E’ lo sguardo leggero che si posa sulle cose, senza far loro violenza, per coglierne il profumo e la bellezza. E’ il cuore leggero di tutti coloro che vivono guardando oltre il proprio orizzonte e sentono che qualcosa nasce dentro e cresce fino a diventare sogno, progetto, anticipo di futuro, di nuove possibili mete da raggiungere e conquistare. Leggerezza non come superficialità, ma capacità di guardare dentro e oltre le cose, di sentirci sempre in viaggio, liberi di ricercare il filo della nostra esistenza e di partire ogni giorno non per mete lontane, ma verso quel centro di gravità intravisto, afferrato e forse mai raggiunto pienamente. Una predisposizione dell’animo, inannizitutto, che ci fa sentire viaggiatori o pellegrini, semplici curiosi o cercatori di senso a seconda di come organizziamo le nostre partenze, i nostri percorsi, gli incontri, i ritorni, ben consapevoli che il nostro cuore va dove trova tesori; dove il desiderio è più forte della paura e la gioia dell’incontro più coinvolgente del timore degli imprevisti. In questi tempi difficili che più di ogni cosa rischiano di spegnere in noi la speranza, vogliamo regalarci un tocco di leggerezza, perché ovunque siamo, qualsiasi cosa facciamo, sappiamo camminare leggeri e cantare la vita in modo nuovo. Esser nella vita pellegrino, pellegrino soltanto, che va sempre per nuovi cammini. Esser pellegrino, senz'altro mestiere, nome e paese. Pellegrino soltanto. Perché niente diventi abitudine né dell’animo né del corpo, passando ovunque una volta, una volta sola e leggero, leggero, sempre leggero. Che non si abitui il piede a calpestare il medesimo suolo e niente diventi abitudine né dell’anima né del corpo." di Angela Maria Savastano Tre spunti per una buona estate un film: “E ora dove andiamo?” di Nadine Labaki, 2011; un libro: “L’arte del viaggiare lento. A spasso per l’Italia senz’auto” di Paolo Merlini, 2012; una poesia: "Itaca” di Konstantinos Kavafis, 1911. maggio 2012: A Berlino: "Economia della sufficienza" giornate di studio del 21 e 22 maggio 2012 www.boell.de/index.html Una "Economia della sufficienza" tiene conto che non sempre "di più è meglio" e che è folle aumentare le pretese di crescita a dismisura di beni materiali nelle società ricche. Occorre ridurre gli sprechi di energia e risparmiare di più. Ma chi lo spiegherà agli economisti? A Berlino un convegno in onore di Wolfgang Sachs e del "Futuro Sostenibile". Girare a piedi o in bicicletta, oppure con i servizi pubblici. Costruire auto che non superino i 120 km all'ora; scegliere il treno invece dell'aereo... Per non uscire dai "limiti planetari", certi che non è possibile una crescita infinita. "Economia della sufficienza - Ciò che manca nell'Agenda per Rio", Wuppertal Institut e Heinrich Boll Stiftung, Schumanstrasse 8, Berlino. |